In questo articolo pubblico un’intervista che ho avuto il piacere di sostenere per Gioia D’Alessandro, una laureanda in Marketing Management presso l’Università degli Studi di Bergamo.
Ci siamo contattati in video conferenza; Gioia sta conducendo un’analisi del food packaging come leva di marketing per la sua tesi di laurea magistrale.
A seguire la trascrizione dell’intervista.
INTERVISTA TONI TRAGLIA
D: Okay, allora lei ha già letto le domande quindi più o meno sa già cose le andrò a chiedere.
T: Sì, sì ho letto la traccia.
D: Allora, iniziamo con la prima domanda. Le chiedo, quali sono le motivazioni che la spingono a voler offrire un servizio di packaging design?
T: È una cosa vecchia diciamo così, io ho un profilo di graphic designer che però era molto ma molto, come dire, preparato proprio per gli aspetti di brand, per le immagini di prodotto e di marca in sostanza. Per cui avendo collaborato all’inizio con le agenzie, si lavorava sul brand e packaging in parte, ho preferito indirizzarmi su quelle realtà che invece facevano solo quello, non tutto come fanno tante agenzie, ma proprio perché avevo più affinità come creativo diciamo, più che nell’advertising, per esempio. Ho lavorato con i più bravi in quegli anni lì e poi piano piano ho portato avanti da libero professionista, perché io sono libero professionista.
D: Si ho letto un po’ sul sito e mi sono un po’ informata ovviamente.
T: Sì, con le prime agenzie si faceva un po’ di packaging ma non in modo veramente serio. Perché poi quando si trattava di investire veramente su delle ricerche, non si faceva, perché il core business era altrove, era più sulla pubblicità, sulle promozioni, il pack era marginale. Però all’inizio è stato quello il percorso. Poi pian piano mi sono orientato verso realtà che invece campavano solo di quello, quindi realtà molto più preparate, più professionali e così via.
D: Okay le chiedo invece in generale quali crede che siano le potenzialità del packaging in ambito food?
T: Enormi, prova ad immaginare una bottiglia senza niente, di vino o di olio, come fai a capire? Cioè a capire forse no ma per lo meno ad essere convinta. Sono enormi, basilari e fondamentali. È chiaro il discorso. Se lei ha su uno scaffale tutte bottiglie vuote, forse siamo alla pari. Dal momento in cui bisogna scriverci qualcosa, il pack diventa fondamentale. Da come tu lo scrivi, da come tu ti proponi cambia tutto. È un venditore il pack, per cui se vendi, vendi bene, se non sai vendere fai più fatica, anche se il prodotto è buono. È questo un po’ il problema secondo me, questo diventa proprio uno spartiacque. Ci sono quelli che hanno capito la forza di questo strumento e quelli che invece sono un attimo li non sicuri che gli porti qualcosa.
D: Va bene, proseguo con l’altra domanda. Quanto dura in media lo studio di un packaging design? So che ci possono essere differenze di tempo sostanziali.
T: Sì, dipende dalla diversità del lavoro. Se sono due, tre prodotti e si ferma lì, magari può essere anche più breve. Tenga conto però che se uno lo prende con le dovute misure diciamo, ci vuole almeno un mese. Se si parla di prodotti abbastanza semplici, poi se si parla di restyling complessi è anche sei mesi.
D: E invece le chiedo quali sono le fasi principali di questo progetto di ideazione e di sviluppo del pack?
T: Per me la parte più importante è quella con il cliente, cioè il brief, in sostanza. Alla fine, se uno è creativo lo è sempre, quindi bene o male potrebbe fare qualsiasi cosa. Però non è detto che sia la cosa giusta, è quello il problema del pack. Il pack in qualche modo è strategico, no? Per cui devi andare a rivestire le cose in funzionalità del target, del mercato e tanti aspetti. Sicuramente capire il cliente è esattamente capire cos’è, cosa ha e cosa vuole. Sono le basi, ecco. Poi da lì ovviamente parte il processo creativo, ma quello potrebbe partire anche senza. Potresti fare una bellissima cosa ma che non va a vestire in modo strategico diciamo quello che sarebbe il target. E questo succede spessissimo. Cioè, per esempio, pack che non vanno a difendere esattamente i valori, sia di prezzo o posizionamento o così via. Queste cose devono essere vagliate prima. Quindi prima il brief, importantissimo. Poi da lì ti concentri su quelle due, tre soluzioni che possono coprire i bisogni diciamo.
D: Okay, chiaro. Invece le chiedo, allora, in che modo secondo lei funzionano le regole di categoria…
T: Sì, è un concetto molto importante. Per esempio, prendiamo il cioccolato. Sono i colori che definiscono il fondente, il latte…con quei colori lì, il cliente sa che quel cioccolato è fondente perché è rosso, il blu invece è al latte. Se tu queste cose qui non le rispetti rischi di far confusione. Parti dalle basi del mercato per indirizzare il tuo progetto. Quello del cioccolato, per esempio, in Italia è molto chiaro. Sono codici che sono stati stabiliti, non si sa da chi. Però è così. Quindi se tu vuoi essere diciamo, rassicurato dal contesto, utilizzi quei colori lì. Poi se tu dici “no io non voglio essere immedesimato nel settore, voglio essere diverso” allora ti muovi in funzione a quello, però deve essere ben ragionata questa cosa qui.
D: Certo. Lei crede che questa volontà di distinguersi sia la strategia più giusta o magari serve più concentrarsi sulle regole di categoria?
T: Il me too va molto di moda, il famoso me too. Cioè anche io come il leader. Adesso un po’ meno ma secondo me rimane. Rimane un aggancio per tanti motivi. Io direi che lì bisogna più che altro bilanciare, perché puoi stare, come dire, legato a qualcosa però facendo una piccola differenza. Oppure, effettivamente, cambiare completamente, però quello può essere un rischio perché non ti identifica col contesto, in quel settore lì. Per esempio, c’è chi fa olio e lo vende in bottiglie di vino, no? Adesso c’è chi lo fa, però a priori sembra vino. È un esempio tipico, dove il contenitore stesso ti identifica che sei nell’olio ed è rischioso prendere un contenitore diverso. Poi devi fare un lavoro molto di recupero per far capire che sei nel settore dell’olio. Il contesto va un attimo per lo meno circoscritto e capito. Poi uno può fare quello che vuole, ma in ambito di mass markets secondo me sono cose importantissime. Poi se uno lavora per le nicchie è diverso.
D: Okay, chiaro. Quali fattori vengono presi in considerazione per la scelta di colore e materiale. Un po’ in realtà mi ha già risposto per quanto riguarda il colore…
T: Eh sì, in realtà è tutto molto legato alla strategia. L’esempio del cioccolato è calzante ma ce ne sono tanti. Poi ci sono dei settori che sono un po’ più liberi, probabilmente, come i settori di nicchia dove sicuramente sei molto più svincolato da certi aspetti. Però se tu lavori, prendiamo un prodotto cosmetico che è anche molto di cura. Lì chiaramente il codice farmacia diventa importante. Il codice farmacia è il bianco, per cui in qualche modo cerchi di fartelo tuo, perché vuoi in qualche modo rassicurare il cliente con un pack che dà l’impressione di, non so come dirti, curativo. Questa è una strategia molto semplice, perché il bianco è immacolato, no? È pulito e dà l’impressione di essere qualcosa di candido. Per esempio, io l’ho fatto su una linea dove effettivamente il bianco mi faceva comodo perché oltre a dare prestigio dovevo anche rassicurare.
Per il materiale è sempre la stessa storia. Parliamo ad esempio di vino. Con il vino in tetrapak non c’è niente da fare, lì è palese. Voglio dire, la bottiglia in vetro rimane più rassicurante. Ecco, per esempio, tornando al cioccolato, c’è la confezione fatta in plastica che non avrà mai, a parte Ferrero che ci è riuscito alla grande, un valore premium. Tutti quelli che fanno premium lavorano con la carta e il cartone, perché dà più senso di premium, il cartone. La plastica dà un’idea un po’ più cheap. In realtà quando ti muovi puoi fare il pack che è più pregiato con il cartone, poi fai sulla stessa linea grafica quello di battaglia, quello che venderai a molto più basso prezzo e lo metterai in una confezione di plastica.
D: Poi volevo chiederle che ruolo gioca secondo lei la marca in ambito di pack?
T: Moltissimo, purtroppo, per chi non ha la marca ma ha un buon prodotto. Ci sono delle marche che fanno prodotti che non sono un granché, francamente, non voglio fare nomi ma è così e che hanno ormai colonizzato il mercato e sono leader di mercato, a scapito di realtà piccole che fanno dei prodotti validissimi e che non riescono ad infilarsi nelle GDO, per esempio, perché è difficilissimo entrare per motivi commerciali. Perché chiaramente i grossi fanno il prezzo e tu non ci stai dietro. Lì è legato proprio alla marca, quindi trascina dietro non solo i vantaggi della propria marca, ma poi tutti gli aspetti negativi relativi alle altre marche, che giustamente non riescono ad essere così affermate. Se io ho sul mercato un buonissimo prodotto ma che nessuno consce come brand c’è il rischio che nessuno lo compri. Bisogna lavorare tantissimo di pubblicità, per farti conoscere, e non è semplice. Non so, nel cioccolato parliamo di Ferrero, di Nestlé e così via, che hanno una forza tremenda. Per cui la marca moltissimo in questo senso. Poi chiaramente c’è tutto anche un discorso di assicurazione, perché se uno sente martellare tutti i giorni la stessa marca, si convince che è una marca buona. Per cui, anche quello fa molto. Poi che ci siano delle marche importantissime che fanno dei buoni prodotti è anche vero. Io lavoro con piccole realtà, piccoli produttori ed è tutto un altro mondo a livello di qualità. Ma giustamente, perché non puoi avere tutto, o fai il numero oppure fai poco e bene, quella è una scelta che uno fa. A tutti i livelli, anche dal mio punto di vista è stata una scelta.
D: Allora, le chiedo poi secondo lei se l’uso di fessure trasparenti o di immagini può andare a influenzare l’esperienza d’acquisto del consumatore?
D: Allora, le chiedo poi secondo lei se l’uso di fessure trasparenti o di immagini può andare a influenzare l’esperienza d’acquisto del consumatore?
T: Certi prodotti posso farli vedere altri no. La pasta secca, ad esempio, la fanno vedere tutti perché comunque è bella. Però ci sono altri prodotti che non fai vedere perché non si presentano bene. In questi casi metti un’immagine sopra. Dipende un po’ dal prodotto, se tu sei sicuro che hai un prodotto buono allora è meglio lasciare la fessura che è più convincente. Poi però non tutto si presta. Il salmone affumicato, ad esempio, si presta, è bello e si fa vedere. Altri secondo me no, ci sono delle cose che è meglio tenere coperte.
D: Okay, penultima domanda. Le chiedo quali sono stati alcuni dei suoi progetti più significativi in ambito di food packaging…
T: E lì ce ne sono tanti, adesso…faccio vedere qualcosa?
D: Certo.
T: Vedi questo qui, per esempio è uno dei primi che ho fatto con agenzie di pubblicità. È quel progetto che in qualche modo mi ha dato conferme delle potenzialità che aveva questo settore. È venuto bene ed è piaciuto tantissimo, qui si vede la stessa grafica del contenitore…
D: Mi dia un attimo che me lo appunto.
T: Cosa ti ha colpito?
D: Beh il contrasto bianco e nero.
T: Questo qui appunto è un filato che diventa materia. Poi diciamo, ti faccio vedere, questo qui per esempio, ha vinto un premio per il graphic design. Anche qua, come lì vedevi filati che diventano materia, che è legato al mondo che tu vai a difendere. Cioè il filato, la lana e i tessuti, giusto? Io lavoro così, traduci concettualmente a livello visivo qualcosa che appartiene al prodotto. Qui siamo nello stesso ambito. Quindi, è molto concettuale. Qui c’è un sole e in mezzo c’è un’oliva. Questo è un olio d’oliva, quindi il concetto è “l’olio d’oliva matura al sole”. Il discorso è che io lavoro su certe cose che sono pertinenti al prodotto, no? Qualcosa che mi aiuta a identificarlo in questo modo. Io non potrei fare la stessa cosa con un vino, ha un altro aspetto. Invece l’oliva è così e la metto nel sole, e vado a collegare una cosa che è importante perché l’oliva non matura senza il sole. Questo è un altro esempio. Qui parliamo di un olio biologico. Lui è proprio uno di quelli che è fanatico del biologico e ha espressamente chiesto di far venir fuori il biologico. Quindi io cosa ho fatto? Ho messo delle foglie d’olive sopra. In più, qua si nota, no? La richiesta di, come dire, contributo alla raccolta differenziata. E diciamo “guarda, gira l’etichetta, in modo che tu separi il vetro dalla carta”. Quindi questa è una delle poche bottiglie in cui riesci a staccare la carta dal vetro. E questa appunto è una cosa che il cliente voleva a tutti i costi…per cui un occhio all’ambiente e un occhio al concetto di olio. Questo qui, invece, è un prodotto più da battaglia, più commerciale e sono delle uova. Questo è stato un restyling, però, anche qui vado a difendere la naturalità di queste uova, no? E ho messo un campo di erba, cioè molto verde. Ma perché qui c’era appunto un discorso di naturalità da difendere. Poi qui, tornando al discorso di prima, ci sono degli elementi che sono lì perché tutti li hanno. Cioè tutte le confezioni di uova hanno delle uova e abbastanza evidenti, per cui anche io mi sono agganciato. Ho messo un uovo perché è un codice che ti accomuna. La differenza è che io le ho lasciate chiuse, mentre quasi tutti le tengono aperte. Per il discorso che dicevo prima, tu puoi entrare e fare qualcosa di diverso, un cerchio di compatibilità. Per ultimo questo qui, che è uno degli ultimi progetti che ho fatto sul vino, dove viene fuori l’origine e io proprio sull’origine ho giocato tutto. Però anche qua ad esempio solo con la tipografia riesci a collegare un’appartenenza in modo molto forte, perché leggi e non leggi. Qui c’è scritto Bardolino, allo stesso tempo, però fa un lavoro di grafica e di coinvolgimento, di fascino. Però prima, devi risolvere il problema “io sono Bardolino”, lo devi dire in qualche modo.
D: Allora, volevo farle l’ultima domanda che è in relazione a quali crede siano le tendenze future da seguire per lo sviluppo di un nuovo pack. In realtà mi ha già parlato un po’ della questione di sostenibilità e un po’ di…
T: Sì, secondo me lì sta diventando un must. Quello che prima era una specie di utopia, cioè qualcuno lo fa già da vent’anni il Bio, ecologico e sostenibile. Lo so perché ci sono dentro e ho scelto quei clienti lì già da un po’. Però alla fine si trattava di un discorso un po’ marginale, che però oggi si sta rivelando quasi come una scelta obbligata. C’è chi cerca di fare l’escamotage, cioè fanno finta di essere green ma non lo sono, perché fare green costa. A parte questo, sta diventando un obbligo, oltre che una tendenza, certificare in qualche modo che tu sei eco-sostenibile. E a me fa molto piacere, perché è da più di vent’anni che ho scelto di seguire questi clienti qua. Però mi fa un po’ sorridere quando vedo certe marche che per cinquant’anni hanno massacrato tutto e che adesso fanno green. Per cui, continuo con la mia strada, con i miei piccoli clienti e vado avanti così.
D: Va bene, io ho finito le domande da fare, la ringrazio e stoppo la registrazione.
T: Sì.